Fra il successo storico proclamato dal mentore della Turchia
del Terzo Millennio, i festeggiamenti e le prime esuberanze dei propri fan, i
complimenti che sanno di promozione dei grandi che contano (Trump e Putin),
compaiono i buchi neri d’una vittoria dimezzata. In testa le accuse
diirregolarità su cui ha detto la sua la stessa Osce, che per bocca di
osservatori locali afferma “talune procedure del voto sono risultate
irregolari“. Il riferimento riguarda la conta avvenuta in parecchi seggi di
schede non timbrate dagli addetti alle operazioni di voto, schede dunque che
potrebbero essere contraffatte. I rappresentanti del fronte del no denunciano
brogli e hanno presentato ricorso. La Commissione elettorale s’è presa una decina di
giorni per esaminare dette schede e sancire il risultato definitivo. Per ora il
successo del sì - che mostra un margine dell’1,4% pari a circa un milione e
trecentomila voti su 58 milioni di votanti, oltre l’86% degli aventi diritto -
è ufficioso ma gode già dell’ufficialità del governo, felice di un avvìo
“democratico” del regime. Agli sconfitti che hanno ripreso il concerto di
pentole e padelle, come all’epoca delle contestazioni di Gazi park, non resta
che sperare nel miracolo di una decisione straniante della Commissione: l’annullamento
del voto. Sembra fantascienza perché un passo simile potrebbe davvero condurre
il Paese a uno scontro aperto, da quello delle risse per via, che già in
qualche caso si sono verificate, a operazioni repressive dettate dalla difesa
della “sicurezza nazionale”. Il referendum stesso, fortemente voluto dal
presidente e dal suo staff ristretto (qualche nome noto dell’establishment
dissentiva), si è svolto in pieno clima di emergenza, la cui legge speciale è
stata di recente prorogata ancora una volta di tre mesi.
Dal fallito golpe del luglio 2016, grazie a tali normative
decine di migliaia di dipendenti statali (impiegati, insegnati di scuole
primarie, secondarie e università, militari, poliziotti, magistrati) sono stati
licenziati o messi a riposo. Migliaia di attivisti kurdi e di sinistra
arrestati, finanche parlamentari dell’opposizione (Hdp) accusati di terrorismo
e prossimità al Pkk. E ancora, molte testate e tv sono state chiuse o
riconvertite a posizioni filogovernative, centocinquanta giornalisti sono
tuttora in galera. In una Turchia crudamente divisa, dove una metà accusa
l’altra di sovversione e terrorismo mentre essa è detestata per servilismo
verso un megalomane del potere che odia avversari e vede (o dice di vedere)
complotti in ogni angolo, il rischio d’una caduta verso lo scontro aperto non è
affatto escluso. Certo la stessa classe dirigente politica ed economica turca
non dovrebbe spingere verso la conflittualità delle piazza. I nemici interni
armati, che esistono e agiscono, e sono solo parzialmente colpiti dalla
repressione che punta soprattutto ad azzerare voci e coscienze critiche dei
cittadini, non possono che avvantaggiarsi da un’aperta conflittualità. Ma è
egualmente vero che la repressione erdoganiana, avviata con la coercizione dei contestatori
di strada, giovani e studenti, ecologisti e femministe, antagonisti
dell’Istanbul laica e cosmopolita, tuttora vivi e urticanti tramite il voto, ha
raggiunto punte elevatissime nei mesi seguenti il tentativo di colpo di mano.
Dunque, per il potere il presidente assoluto, sembra
disposto a tutto. Prendendo anche più delle cento e uno posizioni mostrate in
politica estera sul versante mediorientale. Così in queste ore, come suo
solito, ha alzato i toni. Ha smentito le insinuazioni dell’Osce, messe sullo
stesso piano delle esternazioni di quei Paesi europei con cui si contrasta da
settimane proprio sul tema referendum. Una battaglia che fra l’altro paga,
visto come ha risposto l’elettorato tedesco in Olanda e in Germania: 70% e 60%
a sostegno del sì. Perciò, nelle infuocate ore del dopo voto, Erdogan da quel
fine animale politico, da quel giocatore d’azzardo che è ha pensato: perché non
accelerare? E sta già spiazzando tutti, dirigendo lo sguardo dalle schede non
timbrate e irregolari, e dal tintinnìo delle padelle, altrove. Ora parla di
pena di morte. Rivolta a chi? Certamente ai terroristi, che al suo sentire sono
tutti gli oppositori. Ovviamente ne seguono sdegno interno e internazionale.
Dall’opposizione di Chp e Hdp alle molte voci anche illustri
dell’intellighenzia interna, fino ai membri Ue che già esprimono condanne: ”in
questo modo il presidente esclude a priori ogni possibilità di dialogo e di
entrata in Europa”. Ma lui francamente se ne infischia. La partita con l’Europa
sembra averla già chiusa, per tenere saldo il potere sembra voler sacrificare
ogni cosa. Oppure pratica il doppio-gioco di cui è maestro, sia perché non vuol
perdere il tanto business che il vecchio continente procura (sebbene abbia in
cantiere ulteriori piani con altri partner), sia perché sa che i tre milioni di
profughi siriani costituiscono comunque un deterrente per il Parlamento di
Bruxelles. Il braccio di ferro prosegue, a tutto campo con tutti.
Enrico Campofreda
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